25 luglio, 2006

Acqua alta a Milano ... (semplice racconto tra surrealismo e passato)

Questa mattina quando sono sceso per venire in ufficio ho trovato che i due fiumi che scorrono vicino casa mia (a Zara), il Seveso e il Lambro, avevano deciso di strabordare (credo sia normale quando piove ininterrottamente per due settimane consecutive). Espressione di disapprovazione e gesto di incazzatura feroce a parte, per circa 15 minuti ho camminato in circa 30/40 cm di acqua alta. Mi sentivo come un alluvionato del Polesine, come un veneziano a Milano. La metro non funzionava ed ho dovuto farmi 2 km di strada a piedi, mezzi pubblici inesistenti, traffico paralizzato. Ed in più, quelle poche automobili che riuscivano a passare alzavano fontane d'acqua e fango. Uno di quegli stron... di automobilisti aveva deciso di utilizzare la sua vettura non per gli usi a cui la stessa è normalmente adibita ma come motoscafo d'altura e mentre stavamo aspettando il nostro turno ad un semaforo pedonale, siamo stati castigati in cinque. Ho avuto la prontezza di riflessi di abbassare l'ombrello per ripararmi almeno mezzo busto, ma dalla vita in giù, un dramma idrico. La forza della disperazione mi ha portato fino alla stazione centrale dove vox populi (una famiglia marocchina di sei elementi tutti stipati su un canotto) mi aveva riferito che funzionava una linea diretta della metro. Per coraggio, per rassegnazione ma più per il fatto che mi trovavo nel bel mezzo di un fiume in piena, mi sono spinto verso la speranza annunciata dagli africani abitanti della terrra del sole, del deserto e dell'asciutto. Arrivato in stazione centrale, meraviglia, la metro funziona, delusione, è stracolma di gente. Forse per imitazione, ma anche i vagoni della metropolitana avevano deciso di strabordare; non acqua ma corpi umani, ... vivi! Altro coraggio, faccio di corsa, due volte, il percorso della banchina d'attesa, in cerca di un varco; trovo un finestrino semiaperto, ci provo, mi infilo, perdo una scarpa, riesco dal finestrino, un barbone se l'era fregata, lo inseguo, me la riprendo, rivado al finestrino, ... ci trovo sette persone ed un cane incastrati; e dagli altoparlanti una voce continua a ripetere di: "non forzare l'ingresso in vettura, lasciare libero il passaggio, c'è un altro treno che attende di entrare in stazione, non forzare l'ingresso!". Improvvisamente, scorgo una dozzina tra colletti bianchi, tute blu e massaie annoiate, attaccati sotto il vagone. Ci penso un attimo, e mi dico: “ma questi sono pazzi, è più sicuro sopra la carrozza!”. Utilizzo una piccola montagnola umana, formatasi per caso al centro della banchina, la scalo come una alpinista consumato e mi abbarbico sul tetto del treno. Per quasi venti secondi difendo con le unghie e coi denti, la postazione conquistata, da avvocati, commercialisti ed agenti di borsa. E’ dura ma mantengo la posizione, … ed ecco che il treno parte. Qualcuno si alza in piedi ad imitazione dei “ninos” brasiliani e prova a surfare, ma l’imbocco della galleria lo frega istantaneamente. Qualcuno grida: “non si fanno queste cose in treno, almeno ora stiamo più larghi!”. Il viaggio è un incubo. Non mi ero mai reso conto di quello che si può incontrare sotto il soffitto di una galleria di un metro, cavi elettrici, luminarie di natale, radici di alberi che sbucano fuori e pipistrelli a parte. Comunque arrivo a destinazione e scendere è più facile che salire, basta scivolare e lasciarsi andare; e comunque cadi sul soffice delle persone che sono scese prima di te. Corro verso l’uscita e guardando per un breve istante alle mie spalle, posso ammirare un raro spettacolo della natura (umana): “una cascata di ominidi”. Le scale mobili sembrano immobili, ma … lo sono, sono fuori uso! Zampetto gli scalini a tre a tre, insieme ad uno sciame di cavallette che mi precedono e mi seguono, ed arrivo in prossimità dell’autobus che mi dovrà portare a destinazione. Ma non vedo niente, solo un ammasso di persone, … ma cosa, l’ammasso di muove? All’interno di quel groviglio immenso c’è il mio autobus. Disperato afferro un ombrello che chissà come sbuca da quel gomitolo di braccia, gambe, borse, assi da stiro, solidamente ancorato al nucleo. Fulmineo, mi impossesso di uno skateboard di un bambino orfano della madre, e mentre il piccolo dimostra il suo contrappunto piangendo, inizio la mia avventura come surfista … “da strada”. All’inizio è divertente, ma poi ti accorgi degli squali in doppiopetto grigio, che cercano di azzannarti, e di mangiarti o solo di offrirti una polizza assicurativa (che poi è la stessa cosa), con brochure e depliant più affilati dei denti di uno squalo bianco. Vivo attimi di autentico terrore, ma mi dico: “E’ una prova dura, ma qualcuno dovrà pur farlo!”. Sempre più convinto, faccio lo slalom in autostrada tra automobili, tir diciotto assi, mezzi dell’ANAS, tricicli a metano. E finalmente arrivo a destinazione: Milanofiori, Assago (MI). E’ un immenso acquitrino! Mezzi anfibi dei vigili del fuoco, avvertono che la campagna circostante è allagata (come se non ce ne fossimo già accorti). Ma non c’è il tempo per ascoltare stupide voci allarmiste, mi tocca staccarmi dal pullman ed arrivare, almeno per inerzia o per spinta, all’ingresso dell’ufficio. Con manovra degna di uno stantmen, a metà tra Micheal Jordan ed Alvaro Vitali, mi sgancio dal mezzo-motoscafo e mi lancio verso il palazzotto. Sbatto contro la vetrata d’ingresso, ma è il minimo. Il custode impietositosi, mi apre la porta scorrevole, ma non mi aiuta, altrimenti verrei squalificato (ma de che?). Intanto l’orda barbarica, albanesemente abbarbicata al pullman di cui sopra, invade la sede della società. E’ una lotta contro il tempo, ma guadagno l’ascensore. Fregato, l’ascensore può portare solo dodici sardine; saremo almeno in cinquanta, coraggio! Secondo piano, “…è il mio!”. “Devo scendere!” grido, ma nessuno si sposta, insisto, niente. Mi incazzo, niente ancora. Mi incazzo furiosamente, mi ingrosso sei volte la mia stazza normale e scalpito come un toro nell’arena, si scansano come si scansarono le acque davanti a Mosè (forse anche Mosè si incazzò in quella circostanza). Finalmente l’ufficio! Ormai sfinito arrivo alla scrivania, mi siedo, accendo il computer, mi rilasso per due meritati minuti ed il capo mi dice: “In ritardo, eh?, Così non va!, non va proprio!”

Milano 27/11/2002

4 commenti:

Anonimo ha detto...

bel racconto! soprattutto simpatico il capo!!! :D

Clopin ha detto...

>>viola21: grazie. Immaginavo che ti sarebbe piaciuto.

Ciao
Clopin

Anonimo ha detto...

e solo a quel punto gli hai rotto il setto nasale... no?

:)

Clopin ha detto...

>>itan: ;-)

Clopin